Dal difetto di verginità al risarcimento per l'inadempimento sessuale dell'uomo

Con una recentissima sentenza della Suprema Corte (n° 17676 del 29/04/2019) si è tornati nuovamente sulla questione del diritto di un coniuge nei confronti dell’altro ai rapporti sessuali e cioè quali conseguenze sul piano legale possa comportare un rifiuto dell’uno o dell’altro, ovvero se il rifiuto possa ritenersi giustificato.


Se si esamina la giurisprudenza in questi ultimi quaranta/cinquant’anni emerge non solo un cambiamento totale di vedute (non dimentichiamo che nel 1975 è stato riformato l’intero sistema del diritto di famiglia e nel 1970 è stato introdotto il divorzio in Italia), ma tuttora sussistono difformità di vedute anche all’interno della Suprema Corte su ciò che è legittimo e ciò che non è legittimo all’interno dei rapporti sessuali di coppia.

INGIURIA PER IL CELAMENTO DEL DIFETTO DI VERGINITA’
Per comprendere in che misura sia cambiato il modo di vedere le cose nell’ambito del rapporto di coppia riportiamo integralmente quanto dedotto dalla Corte di Cassazione con la sentenza 11/07/1973 n° 2007 in una situazione nella quale la donna aveva celato il proprio stato fisico al fine di contrarre matrimonio.
Così argomenta la Suprema Corte “il B. la notte di nozze dopo aver constatato la pregressa deflorazione della moglie si recò in compagnia di costei presso il più vicino posto di Polizia ed ivi espose l’accaduto al sottoufficiale di servizio credendo che il comportamento omissivo della moglie integrasse un fatto penalmente perseguibile.

Avendo appreso che non esisteva illecità penale condusse allora la consorte all’abitazione di una zia, ove alla presenza di costei, della cugina e del marito di quest’ultima riferì quanto gli era capitato provocando l’ammissione della M. …. Il B. denuncia la violazione dell’art. 151 c.c. sostenendo che la Corte di merito nel respingere la domanda di separazione per colpa della moglie avrebbe omesso di considerare il particolare ambiente a cui esso ricorrente apparteneva, i suoi sentimenti morali e religiosi, la particolare mentalità delle persone viventi nel suo piccolo paese di provincia e non avrebbe altresì adeguatamente valutato il fatto che al M. era riuscita a contrarre matrimonio mediante un inganno e cioè celando la perdita del proprio stato di verginità…”.

La Cassazione, con buona pace delle femministe dell’epoca se esistevano, così conclude “Il ricorso deve essere accolto. Questa Corte Suprema in casi analoghi ha sempre affermato che il celamento del difetto di verginità da parte della sposa costituisce normalmente un ingiuria grave nei confronti del marito tale da legittimare la declaratoria di separazione personale per colpa… al riguardo è da considerare che il concetto di ingiuria in tema di separazione dei coniugi comprende ogni comportamento che in quanto lesivo dei doveri giuridici e morali imposti dal matrimonio, renda moralmente impossibile e quindi insopportabile la convivenza coniugale allorché uno sposo constati che la moglie lo ha ingannato, celando il proprio difetto di verginità prima che il loro matrimonio fosse celebrato.”.

REMEDIUM CONCUPISCENTIAE
Ci eravamo già occupati degli ondeggiamenti della Cassazione nel corso degli anni rilevando che le questioni si sono ovviamente evolute nel tempo.
Si è parlato dalla situazione ante riforma del 1975 con corposi trattati di diritto sul “Difetto di verginità” o sul “Celamento della perdita di verginità” quale “obbligo sociale” e “bene di famiglia” (già in precedenza avevamo richiamato numerosi e corposi testi sul tema (vedasi ex multis Nicolò - Stella Ricter, Giuffre Editore 1968) riportando sentenze dello stesso tenore che configurano la perdita della verginità prima del matrimonio quale ingiuria grave in danno dell’altro coniuge per arrivare a tutt’altro genere di cause ai tempi attuali (ex multis Cass. 36/2005 ed altre) nelle quali invece è la donna che conviene in giudizio il marito il quale rifiuta di intrattenere rapporti sessuali o non appaia perfettamente idoneo o adeguato allo scopo ed alle aspettative dell’altro coniuge.

Recentemente nel processo di separazione a tutela di un cliente ci è capitato di essere convenuti in giudizio da una signora che ha richiesto al proprio marito un risarcimento di € 500.000,00 (dicesi cinquecentomila/00 euro) per non aver adeguatamente rispettato i propri obblighi sessuali rispetto viceversa il comportamento che aveva tenuto durante il fidanzamento.

Il Tribunale giustamente nel processo di separazione respingeva la domanda ed ovviamente l’esoso risarcimento del danno.
Per comprendere il rivolgimento del pensiero basti ricordare che prima del 1975 la posizione femminile appariva di estrema subordinazione.
Per tutti gli anni ’50 e successivi i giudici riconoscevano l’obbligo da parte della donna di concedersi sessualmente come appunto remedium concupiscentiae a beneficio dell’altro coniuge oppure al fine supremo della prosecuzione della stirpe e della continuità della famiglia con norme in tempi per nulla lontani erano ben diverse ed inconcepibili per le mentalità attuali.
Basti ricordare che l’art. 553 del Codice Penale come si è già visto in un altro articolo, in vigore fino al 1971 configurava come reato l’utilizzazione dei metodi anticoncezionali e per tutti gli anni ’50 le donne sono state escluse dalle giurie popolari della magistratura ed anche dalla carriera diplomatica alle quali verranno ammesse solo nel 1963.

IL DIRITTO ED IL DOVERE RELATIVO AI RAPPORTI SESSUALI
Non esistono norme giuridiche che stabiliscono un minimum di prestazioni sessuali o un obbligo vicendevole.
Tuttavia secondo la giurisprudenza anche corrente può ritenersi illegittimo il rifiuto di rapporti sessuali dall’una o dell'altra parte in quanto l’obbligo vicendevole di assistenza previsto dal Codice Civile ricomprende anche la necessità di soddisfare le reciproche necessità che non sono soltanto quelle di natura economica o etica.
Se è pur vero che i rapporti sessuali non costituiscono più un dovere coniugale in senso stretto, tuttavia va detto che il rifiuto ingiustificato di avere rapporti sessuali può comportare l’addebito della separazione, mentre, come giustamente rilevano molti osservatori, d’altra parte, chi vuole forzatamente ottenere rapporti sessuali potrebbe commettere reato di violenza sessuale.

QUANDO IL RIFIUTO DELLA MOGLIE NON E’ MOTIVO DI ADDEBITO

La Corte Suprema ha rivisto un’altra volta i propri recenti orientamenti con l’ordinanza 15 febbraio 2019 n° 4623 precisando che il rifiuto della moglie di avere rapporti intimi con il coniuge non è motivo di addebito richiesto dal marito della separazione, allorché tale rifiuto appaia ingiustificato.
La questione nasce da una sentenza del Tribunale di Venezia che respingeva la domanda del marito il quale pretendeva l’addebito della separazione in danno della moglie.
Il Tribunale stabiliva un assegno di mantenimento in favore della donna e dunque il coniuge che si sentiva defraudato dei propri i diritti ricorreva prima alla Corte d’Appello e poi alla Corte Suprema.
Ciò anche per un interesse specifico ed economico oltre che etico, in quanto, come è noto, una delle conseguenze dell’addebito della separazione è proprio quello della perdita dell’eventuale assegno di mantenimento.
Rilevava il ricorrente che i giudici a quo non avevano esaminato un fatto decisivo alla base della questione in quanto non avrebbero rilevato l’illegittimità del comportamento della moglie che rifiutava di avere rapporti intimi con il marito.
La moglie viceversa imputava tale circostanza ad una malattia documentata, ma soprattutto all’opprimente atmosfera che si era instaurata in casa con il marito che non agevolava una normale vita di coppia.
La Cassazione tuttavia confermava l’orientamento dei giudici del Tribunale e della Corte d’Appello rilevando che allorché in casa regni un’atmosfera opprimente o negativa appare fatto normale che vi sia un allontanamento fra i coniugi e conseguentemente la tensione ed il nervosismo non possono agevolare i rapporti di coppia.

Conseguentemente in tali occasioni il rifiuto della moglie di intrattenere rapporti con il marito non può essere motivo di addebito della separazione semplicemente perché il rifiuto non è ingiustificato, ma deriva proprio dalla preesistente esistenza di contrasti in ambito familiare.

SESSO IN AMBITO CONIUGALE – LA VIOLAZIONE DELLE OBBLIGAZIONI MATRIMONIALI
Non sempre tuttavia la Cassazione è orientata in questo senso.
Per comprendere gli attuali orientamenti giurisprudenziali è necessario partire dal presupposto del Codice Civile ove vengono stabiliti i diritti ed i doveri vicendevoli fra i coniugi.
Pur non essendoci nulla di specifico in tema di rapporti sessuali, (non dimentichiamo che il Codice risale al 1942), tuttavia l’art. 143 c.c. prevede espressamente come “…. dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione all’interesse della famiglia ed alla coabitazione”.
Da tali principi, i giudici anche in tempi recenti, hanno statuito come il diritto-dovere di intrattenere rapporti sessuali, spetti ad entrambi in modo paritario ed è equiparabile a tutti gli altri diritti-doveri stabiliti dalla normativa a tutela del rapporto di coppia.

La giurisprudenza ritiene quindi che, salvo che non vi siano motivi di impedimento, come nel caso sopra detto, il sottrarsi ripetutamente a tale obbligo, indipendentemente dal fatto che l’omissione si possa riferire all’uomo o alla donna, possa legittimamente dar luogo all’addebito della separazione in quanto sussisterebbe un’espressa violazione dell’obbligazione sul tema ove prevista dalla disciplina vigente.

L’orientamento attuale della Suprema Corte infatti è che “Il rifiuto alla sessualità senza alcuna giustificazione dà luogo all’offesa della dignità della persona e può dar luogo all’addebito della separazione”.

OSTENSIONE DEL SESSO COME RITORSIONE

Infine rileviamo come la giurisprudenza ha comunque sempre ritenuto rilevante e quindi evento che può portare alla pronuncia dell’addebito della separazione, allorché il rifiuto dei rapporti sessuali viene utilizzato quale sistema di ritorsione o quale mezzo di punizione del comportamento dell’altro coniuge.
Una famosa sentenza della Suprema Corte condannava un uomo che per lunghi anni aveva rifiutato di intrattenere rapporti sessuali con la moglie giustificando tale rifiuto quale punizione di un mancato adempimento economico.

SESSO SFRENATO
Quanto alla frequenza i giudici, come si evince da molte sentenze di merito e di legittimità, hanno sempre considerato legittimo rifiuto allorché la pretesa sia eccessivamente continuativa e ripetitiva senza alcun rispetto della sensibilità e delle esigenze dell’altro coniuge.
La Cassazione non si pone particolari problemi etici laddove i rapporti sessuali della copia appaiano particolarmente “aperti” o sussistano costumi sessuali “particolari” fino a giungere ad incontri con altri partner, scambi di coppia e simili.  

La giurisprudenza ha sempre confermato che tali situazioni non costituiscono alcun illecito se vengono accettati da entrambi, mentre il successivo ripensamento appare tuttavia perfettamente legittimo, né sussiste un diritto del coniuge a proseguire in determinate pratiche sessuali se ad un certo punto l’atro decide di interrompere.
Spulciando nelle sentenze di merito e di legittimità sono emerse situazioni che non sfigurerebbero in un film comico degli anni ’60.

Se poi si va indietro nel tempo si entra in un ottica completamente diversa, si va dal peccato “sicuramente mortale” di una ragazza che si siede sulle ginocchia del proprio fidanzato (Mon Bouvier – Manuale dei confessori 1837), ad acute dissertazioni di rapporti sessuali in ascensore (Cass. 10060/2001) alle galanterie di un elettricista che intratteneva sessualmente entrambe le sorelle (Cassazione 2012), sesso di gruppo (Cassazione 2004) fino a pratiche sadomaso di gruppo (Corte Europea 17/02/2005) e molto altro.

Pubblicazioni Avv. Maurizio Bruno

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