LA FATTISPECIE IN ESAME
La Cassazione interviene sulla sentenza della Corte d’Appello di Messina confermando l’assoluzione del marito dal delitto di maltrattamenti in famiglia, ma riformando la sentenza che lo aveva prosciolto l’imputato anche dal reato di interferenza illecita nella vita privata (art. 615 bis cod. pen). Ciò in quanto, attraverso una registrazione sonora di alcune conversazioni private intercorse fra la moglie ed il padre di lei, si era procurato informazioni sulla vita privata della donna.
Il Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Messina impugnava dunque la sentenza che aveva prosciolto l’imputato da entrambi i reati, quello di maltrattamenti in famiglia e quello di illecita interferenza nella vita privata, rilevando che l’imputato andava condannato per entrambi gli illeciti.
MALTRATTAMENTI
Quanto ai maltrattamenti in famiglia puniti dall’art. 572 c.p. la Corte d’Appello aveva prosciolto l’imputato escludendo la configurabilità del reato in ragione della reciprocità delle condotte aggressive.
Oltre alla reciprocità delle offese, la Corte d’Appello segnalava lo strato di prostrazione psicologica della vittima (il magistrato), il breve periodo di convivenza, la mancanza di lesioni, ovvero di danni certificati o di chiara evidenza.
Inoltre rilevava il Giudice d’Appello che tutti gli episodi di asserite violenze, restavano privi di prova ed attestati soltanto da dichiarazioni di familiari, anche se nessuno di loro aveva mai assistito ad atti di violenza o ad altre condotte maltrattanti, salvo una amica del magistrato a cui la persona offesa raccontò alcuni episodi avvenuti anche durante il viaggio di nozze, che però non hanno trovato sostanzialmente alcun riscontro trattandosi di testimonianze de relato.
Inoltre il Giudice dell’Appello precisa che dall’istruttoria era emerso il forte risentimento della donna magistrato verso il coniuge proprio a causa della scoperta di precedenti relazioni sentimentali riferite al periodo di fidanzamento, nonchè le violente discussioni sulle scelte di vita fondamentali.
In sostanza la sentenza della Corte d’Appello che proscioglieva l’imputato, insisteva sulla condizione di fragilità psicologica della donna, attestata anche dal tenore dei messaggi prodotti e dalla fatto che la denuncia era mirata, non tanto a punire il coniuge di reali atti di violenza, quanto a vendicarsi delle presunte violazioni del dovere di fedeltà.
Inoltre evidenziava la Corte d’Appello gli attacchi di panico ai quali era soggetta la donna a seguito dei quali si erano verificati singolari comportamenti, come allorchè il marito inoltrava alla sorella di lei, una foto mentre la donna dormiva nel letto con una flebo di sedativo attaccata al braccio, fatto che era stato indotto nel processo dalla denunciante come dimostrazione degli atti di violenza compiuti.
Tuttavia a parte le stranezze del comportamento, non era emersa alcuna particolare reazione dei familiari di lei i quali, se avessero ritenuto che si trattava di fatti allarmanti, si sarebbero recati immediatamente sul posto.
A ciò si aggiungeva la dichiarazione di un’amica ispettrice di polizia la quale alla Corte spiegò la situazione di gelosia della donna, escludendo tuttavia di aver ricevuto confidenze riguardo a condotte violente o maltrattamenti, che invece sarebbe stato naturale narrare all’amica.
La Corte di Cassazione sul primo punto confermava la sentenza della Corte d’Appello anche perché dalla stessa lettura dei messaggi della parte civile nei confronti dell’imputato, il magistrato ringraziava il marito per essersi sempre preso cura di lei e dunque mancava sostanzialmente una prova dei maltrattamenti che questa asseriva di aver subito.
LA QUESTIONE DELL’INTERFERENZA ILLECITA NELLA VITA FAMILIARE
Su tale questione viceversa la Corte Suprema accoglieva l’impugnazione del Procuratore, ritenendola fondata e quindi rimettendo gli atti alla Corte d’Appello per riesaminare la questione.
Ricordiamo sotto questo profilo che l’art. 615 bis del Codice Penale punisce chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procuri indebitamente notizie o immagini attinente alla vita privata nelle abitazioni private o luoghi equiparati, con la reclusioni da sei mesi a quattro anni.
La stessa pena si applica a chi rileva o diffonde mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico le notizie o le immagini ottenute in questa maniera.
La norma ha subito diverse interpretazioni nel corso del tempo e tuttora vi è un non costante orientamento della Corte Suprema.
Ricordiamo Cassazione Penale n. 4926/2009 che ha ritenuto di prosciogliere l’imputato il quale aveva inserito all’interno dell’autovettura un telefono cellulare in grado di intercettare le conversazioni delle persone a bordo, ritenendo che l’autovettura non potesse essere considerata come luogo di privata dimora.
Né è stato ritenuto sussistere il reato nelle ipotesi in cui un soggetto faccia riprese fotografiche o video filmati delle attività edificatorie nella contigua proprietà, consistenti nella realizzazione del muretto di confine. Ciò considerando che l’attività intrusiva deve essere “indebita” e pertanto priva di qualsiasi ragione giustificativa, mentre nel caso specifico si trattava di valutare il rispetto delle prescrizioni urbanistiche e per di più si trattava di un’attività agevolmente osservabile.
Di contro integra il reato allorchè le immagini siano ottenute mediante appositi teleobiettivi o sistemi elettronici in grado di ingrandire fotogrammi (Cass. Pen. n. 25363/2015).
Ed ancora non integra secondo la Cassazione Penale n. 22221/2017 il reato di interferenza illecita della vita privata, la condotta di colui che mediante l’uso di ripresa visiva provveda a filmare in casa propria rapporti intimi intrattenuti con la compagna, in quanto l’interferenza illecita non promana da un terzo estraneo della vita privata bensì da un soggetto che ne fa parte.
Il reato ovviamente sussiste in tutti quei casi in cui il soggetto si procuri le immagini o notizie attinenti al vita privata, inserendo nei bagni dell’ufficio riservato al personale femminile, una microtelecamera, anche se questa, a causa di un guasto tecnico non abbia funzionato (Cass. Pen n. 4669/2018).
Lo stesso reato sussiste (Cass. Pen. n. 27990/2020) nei casi in cui un infermiere si procacci immagini di parte intime di una paziente mediante apparecchiatura all’interno di uno studio medico privato.
Ancora in senso difforme dalla sentenza oggi in esame, la Cassazione (36109/2018), ha ritenuto, incolpevole il soggetto il quale filmi la propria moglie all’interno del bagno o della camera da letto intenta all’igiene del proprio corpo ed alla cura della persona.
Non si configura in tal caso il reato, in quanto l’autore del filmato condivide con i medesimi soggetti e con il loro consenso la vita privata oggetto di captazione.
Ancora più di recente Cass. Pen n. 28448/2023 ha ritenuto come non integri il reato di interferenza illecita della vita privata la condotta di colui che, ammesso ad accedere nell’abitazione del coniuge separato, provveda a filmare senza il consenso gli incontri di quest’ultimo con il figlio minore.
Ciò in quanto l’art. 615 bis. c.c.p. tutela la riservatezza domiciliare, sanziona la condotta di chi risulti estraneo agli atti, oggetto di captazione di vita privata, ossia gli atti o le vicende della persona in luogo riservato e non di chi sia stato ammesso, sia pure estemporaneamente, a farne parte.
LA DECISIONE
La Corte di Cassazione tuttavia con la decisione sopra riportata aderisce alla tesi più restrittiva e ritiene che, ai fini dell’esclusione dei reato, vi debba essere un consenso quantomeno implicito della persona coinvolta nelle captazioni e non un diniego o la mancanza del consenso.
Quanto alla presenza dell’imputato all’interno del domicilio comune, ciò non esclude la commissione del reato allorchè il reo non partecipi a quella porzione di vita privata che si esplica all’interno del domicilio qualunque esso sia.
L’unico punto da valutare, secondo la Cassazione, è la questione della possibile legittimità della registrazione, allorchè la configurabilità del reato può essere esclusa allorchè vi sia una causa di giustificazione quale l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere o la legittima difesa.
Per tali motivi la Corte di Cassazione rimetteva la causa di nuovo alla Corte d’Appello ad altra sezione per rivedere la questione ed annullando la sentenza impugnata.