Assegno nel divorzio: ennesimo ripensamento della Corte di Cassazione a sezioni unite

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Con una nuova marcia indietro, la Cassazione con la sentenza a Sezioni Unite n. 32198 pubblicata il 5/11/2021 cambia nuovamente opinione.
Ora una donna divorziata che abbia instaurato una stabile convivenza con un nuovo compagno, può egualmente aver diritto a conservare l’assegno divorzile, contrariamente all’orientamento che si era ormai consolidato non solo nell’ambito del divorzio, ma anche in parte nell’ambito della separazione dei coniugi.

La questione nasce dalla sentenza del Tribunale di Venezia con la quale pronunciando il divorzio, venivano affidati i figli minori alla moglie, determinando il contributo dovuto per costoro a carico del marito, ma ponendo a carico di quest’ultimo l’obbligo di versare all’ex coniuge un assegno divorzile di € 850,00, pur se questa aveva instaurato una nuova stabile relazione.
La Corte di Appello di Venezia, adita in sede di impugnazione, modificava l’affido esclusivo in affido condiviso, ma soprattutto revocava l’assegno divorzile, aderendo all’orientamento ormai consolidato della Suprema Corte di escludere l’assegno anche sotto il solo profilo assistenziale, allorché sia cessato ogni rapporto con l’ex coniuge. Ciò, in quanto la moglie non solo aveva una relazione stabile con il nuovo compagno, ma da tale relazione era nata una nuova figlia.


L’EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE IN TEMA DI ASSEGNO DIVORZILE
Per ricordare le ultime elaborazioni giurisprudenziali, va ricordato innanzi tutto che, così come avviene per la separazione, anche nel divorzio è prevista la possibilità che il Tribunale provveda ad attribuire ad un coniuge a carico dell’altro, la somministrazione periodica di un assegno “quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.

Tuttavia vi è una differenza sostanziale rispetto all’assegno della separazione.
Infatti mentre il processo di separazione pone il matrimonio in uno stato di quiescenza e cioè i coniugi possono rimanere separati, oppure possono riconciliarsi ex art. 157 c.c. o ancora possono divorziare ex lege n. 898/70, di contro il divorzio mette nel nulla il matrimonio e cioè fa cessare definitivamente ogni rapporto ed ogni obbligo vicendevole dei coniugi, salvo quelli previsti dalla legge o appunto nel nostro caso l’eventuale onere dell’assegno divorzile.
Sostanzialmente mentre l’assegno della separazione trova fondamento negli obblighi matrimoniali e cioè nell’obbligo di assistenza vicendevole e di collaborazione familiare, nel caso del divorzio, proprio perché cessa ogni rapporto fra i coniugi non può esservi più alcun riferimento agli obblighi matrimoniali.
La questione nelle sue linee essenziali è piuttosto semplice e si riduce ad una diversa interpretazione del comma 6 dell’articolo 5 della legge divorzile n. 898 del 1970 nel testo modificato dall’art. 10 della legge n. 74/1987.

La norma letteralmente statuisce: “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno per la conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.
Come emerse subito alla promulgazione della legge, la norma era scritta in modo poco chiaro inserendo un elemento sull’altro e dava luogo ad interpretazioni spesso contrastanti, fino a che le Sezioni Unite della Cassazione stabilirono oltre 20 anni orsono che il criterio per riconoscere l’assegno e determinarne l’entità, doveva essere quello del diritto a mantenere il tenore di vita goduto in precedenza.

Tuttavia nel 2017 mutava la lettura e l’interpretazione della norma e, con la pubblicazione della famosa sentenza n. 11504 del 10 maggio 2017 veniva escluso il diritto della donna a percepire l’assegno divorzile indipendentemente dal tenore di vita goduto in precedenza, purché avesse un sia pur modesto reddito autonomo. In sostanza rilevava la Corte era assurdo determinare un assegno divorzile a carattere assistenziale rapportato al tenore di vita, laddove lo scopo del divorzio era appunto quello di far cessare ogni rapporto fra gli ex coniugi. Sempre secondo la Corte Suprema il matrimonio costituisce “una scelta esistenziale libera e consapevole che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di un eventuale cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà post matrimoniale da parte dell’altro coniuge il quale non può che confidare nell’esonero definitivo di ogni obbligo...”.
Secondo tale nuovo orientamento dunque, andava escluso che potesse sussistere una “ultra-attività” del vincolo matrimoniale dopo il divorzio.
Ovviamente la costituzione di una nuova famiglia o di un nuovo legame stabile, escludeva ipso jure ogni pretesa.

L’ADEGUATEZZA DEL REDDITO E LA EVENTUALE DETERMINAZIONE DELLL’ASSEGNO DIVORZILE IN CONCRETO
Soltanto se la donna era priva di reddito o ne aveva un “reddito adeguato” si sarebbe passati alla determinazione dell’importo dell’assegno che non doveva tuttavia essere rapportato alle condizioni economiche degli ex coniugi godute durante il rapporto coniugale, bensì al criterio del raggiungimento di un’indipendenza economica in modo da rendere autosufficiente l’interessata.
Quindi sostanzialmente il diritto all’assegno derivava, solo dalla mancanza di reddito oppure da un reddito non sufficiente e cioè non adeguato alle proprie necessità.
Quanto “all’adeguatezza” alcuni Tribunali (tra cui il Tribunale di Milano con ordinanza del 22 maggio 2017) intervenivano con una interpretazione del criterio dell’indipendenza economica e dell’adeguatezza del reddito.
Il Tribunale riteneva che “...per indipendenza economica deve intendersi la capacità per una persona adulta e sana, tenuto conto del contesto sociale di inserimento, di provvedere al proprio sostentamento, inteso come capacità di avere risorse sufficienti per le spese essenziali”.

Per rispondere in concreto al quesito il Tribunale riteneva che dovesse farsi riferimento all’ammontare degli introiti che secondo le leggi consentivano all’individuo di accedere al patrocinio a spese dello Stato (e cioè ad € 11.528,41 annui, ossia a circa di euro 1.000 mensili).
Sotto certi profili la sentenza era condivisibile nel senso che il matrimonio non deve essere considerato come un “punto di arrivo” o come un meccanismo per “sistemarsi”.

Tuttavia andava anche tenuto conto che in questa maniera si pregiudicavano le situazioni molto frequenti nelle quali la donna su accordo dei coniugi si era dedicata esclusivamente alla famiglia, trascurando la propria attività professionale o l’utilizzo dei propri titoli di studio, permettendo al marito di effettuare una carriera economicamente rilevante, salvo poi trovarsi dopo la crisi del matrimonio, (non dimentichiamo che in Italia quasi un rapporto di convivenza o matrimoniale su due fallisce) a dover rimpiangere di non essersi dedicata alla tutela dei propri interessi per sopperire alla famiglia, finendo magari in età avanzata con modesti redditi, ben diversi da quelli che aveva in costanza di matrimonio e che avrebbe potuto ottenere se avesse trascurato i figli e la famiglia per dedicarsi alla carriera.
Un ulteriore incentivo, secondo molti, a non fare figli.

LA FUNZIONE ASSISTENZIALE, COMPENSATIVA E PEREQUATIVA E LA SENTENZA DEL 2018
La Corte di Cassazione a Sezione Unite si rendeva ben presto conto dei limiti e degli errori contenuti nella sentenza precedente del 2017, laddove far cessare ogni obbligazione vicendevole con il divorzio, non poteva non portare a conseguenze estremamente ingiuste nei confronti del coniuge più debole, normalmente la donna.

L’intervento era altresì reso necessario dall’enorme contenzioso che si era aperto dopo la sentenza del 2017 in tutti i Tribunali italiani a seguito del mutamento di rotta e dovendo supplire alle manchevolezze ed alla precedente decisione.
Così dopo circa un anno, con la sentenza a Sezioni Unite n. 18287 pubblicata l’11/07/2018 la Cassazione mutava di nuovo opinione ed optava per la soluzione intermedia dichiarando che l’assegno di divorzio può essere attribuito alla donna, ma solo comparando le rispettive posizioni economiche e patrimoniali fra ex marito e moglie, dando rilievo al contributo fornito all’ex coniuge alla formazione del patrimonio comune in relazione alla durata del matrimonio, alle potenzialità reddituali future ed all’età date all’avente diritto.

Ciò significa sostanzialmente che il giudice, allorché venga richiesto l’assegno divorzile, deve procedere ad un preventivo esame per stabilire in linea teorica se la richiedente ne abbia o meno diritto, (l’“an debeatur”).

Il diritto scaturiva secondo tale seconda sentenza, soltanto se la richiedente era priva di reddito e non era in grado di procurarsene uno adeguato, cioè se non era indipendente economicamente e contestualmente esaminando la storia del rapporto coniugale con riferimento all’apporto fornito dalla moglie alla costituzione del patrimonio o delle potenzialità economiche del marito.
Più esattamente le Sezioni Unite risolvendo il contrasto giurisprudenziale, stabilivano che all’assegno di divorzio dovesse attribuirsi una funzione, assistenziale e, in pari misura, compensativa e perequativa (Cass. sez. un. 11 luglio 2018 n. 18287).
La nuova decisione spazzava via il concetto che con il divorzio veniva meno ogni diritto all’assegno divorzile della donna ed in 38 pagine la Corte Suprema, dopo aver esaminato l’evoluzione storica dell’assegno divorzile rapportato alla situazione sociale reale delle famiglie e considerando anche gli orientamenti in campo europeo sul tema, chiudeva con una soluzione intermedia.
Da un lato escludeva che l’assegno potesse essere attribuito semplicemente rapportandosi al tenore di vita precedentemente goduto e dall’altro escludeva che l’assegno dovesse cessare semplicemente per la pronuncia divorzile, ritenendo che l’errore della precedente decisione era stato quello di non considerare il contributo fornito dalla donna alla conduzione della vita familiare, contributo che costituiva il frutto di decisioni comuni di entrambi i coniugi, liberi e responsabili, decisioni che incidono profondamente sul profilo economico e patrimoniale di ciascuno dopo la fine dell’unione matrimoniale.

In sostanza la sentenza precisa che, ai fini del riconoscimento dell’assegno, (che quindi con i presupposti indicati va attribuito) si deve adottare un criterio composito che, alla luce della valutazione comparativa delle rispettive condizioni economiche e patrimoniali, dia particolare rilievo al contribuito fornito dall’ex coniuge richiedente l’assegno, alla formazione del patrimonio comune e personale in relazione alla durata del matrimonio, alle potenzialità reddituali future ed all’età dell’avente diritto.
Tra l’altro il parametro così indicato trova fondamento nei principi costituzionalidi pari dignità e di solidarietà che permeano l’unione matrimoniale anche dopo lo scioglimento del vincolo.

Dunque il giudice non poteva più escludere il diritto della moglie all’assegno divorzile semplicemente sul presupposto della percezione di un reddito seppure modesto, ma doveva tenere conto del diritto della stessa al raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantirle l’autosufficienza, ma con un livello reddituale adeguato.
Di contro andavano esclusi gli assegni divorzili allorché la donna avesse un reddito rilevante, ovvero la durata del matrimonio fosse stata talmente breve da escludere ogni partecipazione della donna alla crescita del marito.
In senso analogo anche la famosa sentenza della Cassazione n. 21926 del 2019 che confermava l’annullamento dell’assegno già dovuto da Silvio Berlusconi di ben € 1.400.000,00 mensili riconosciuto dal Tribunale alla moglie.
In ogni caso era confermato che un nuovo menage stabile dell’ex moglie escludeva comunque ogni pretesa all’assegno divorzile.

LA GIURISPRUDENZA SUCCESSIVA
In seguito numerose altre sentenze sono intervenute sul punto.
Il 23/04/2019 con la sentenza n. 11178 la Cassazione è ritornata sulla questione indicando espressamente i nuovi criteri da adottarsi:
1) abbandono definitivo di entrambi i criteri precedentemente utilizzati, vale a dire il tenore di vita e l’autosufficienza economica del richiedente;
2) va disconosciuta la funzione meramente assistenziale dell’assegno divorzile che acquista una natura composita unendo alla funzione assistenziale quella perequativa e compensativa;
3) i criteri della legge divorzile e cioè del comma 6° dell’art. 5 non vanno letti in modo subordinato, ma dando agli stessi pari valore, abbandonando il criterio di adeguatezza o non adeguatezza dei mezzi favorendo viceversa la visione concreta nella specifica situazione coniugale posta all’esame della Corte;
4) va valutata tutta l’intera storia coniugale e la prognosi futura determinando l’assegno in rapporto all’età, allo stato di salute dell’avente diritto, nonché alla durata del vincolo matrimoniale;
5) va valorizzata la funzione perequativa-compensativa dell’assegno, accertando
in modo estremamente rigoroso il nesso causale esistente fra le scelte all’interno della famiglia e la situazione del richiedente al momento dello scioglimento del rapporto di coniugio.
In ogni caso anche le decisioni successive, fino ad oggi, escludevano categoricamente il diritto all’assegno, dopo la costituzione stabile di una nuovo rapporto sentimentale.







LA PARTICOLARE SITUAZIONE POSTA ALL’ATTENZIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE A SEZIONI UNITE N. 32198 DEL NOVEMBRE 2021



La questione all’esclusione del diritto a fronte di una nuova unione, veniva riesaminata dalla Cassazione a Novembre 2021.

In realtà la controversia si poneva in modo differente rispetto alla maggioranza delle fattispecie esaminate dalla Corte di Cassazione in precedenza.

Infatti la ricorrente non contestava di avere ricostituito una nuova famiglia e di avere avuto anche un’altra figlia da tale unione, tuttavia esponeva che, nei nove anni della durata del matrimonio, aveva rinunciato ad un’attività professionale, o comunque lavorativa, per dedicarsi interamente ai figli avuti dalla pregressa unione.

Ciò anche dopo la separazione personale dal marito, il quale aveva potuto dedicarsi interamente a costruire il proprio successo professionale, quale amministratore e soprattutto proprietario di una delle più prestigiose imprese di commercializzazione e produzione di calzature in Italia, con un fatturato anche all’estero pari a vari milioni di euro.

Non essendo la donna più in età adatta per poter rinvenire un’attività lavorativa, la stessa di fatto era vissuta e continuava a vivere con i propri figli, mediante l’elargizione di un assegno, anche se si era unita nel frattempo all’attuale compagno da quale aveva avuto, come detto, una figlia.

Tuttavia il nuovo compagno della donna, svolgendo la modesta attività di operaio, percepiva un reddito lavorativo di circa € 1.000,00 al mese, reddito che veniva pesantemente penalizzato dalle rate di mutuo assunte per l’acquisto della casa presso la quale convivevano anche i figli del precedente matrimonio, i quali continuavano a seguire gli studi.

La moglie quindi richiedeva alla Corte di Cassazione una revisione del precedente orientamento che prevedeva la perdita automatica ed integrale del diritto all’assegno nel caso in cui il beneficiario instauri una convivenza di fatto, auspicando un ritorno all’indirizzo precedente, meno rigido. In sostanza chiedeva che si escludesse l’automatismo estintivo dell’assegno divorzile, quale conseguenza della nuova convivenza, dovendo esaminare il giudice caso per caso e soprattutto considerando che nella fattispecie in esame alla Corte Suprema, di fatto l’ex coniuge aveva raggiunto traguardi rilevantissimi, soprattutto grazie al sacrificio della moglie che si era dedicata totalmente ai figli ed ora si trovava estromessa, sia dalla possibilità di procacciarsi un reddito proprio, data l’età, (cosa che invece avrebbe potuto fare all’epoca), sia dal poter ricevere, secondo l’opinione della Corte d’Appello, un adeguato assegno divorzile.



IL RIPENSAMENTO DELLA CORTE SUPREMA



La Cassazione accoglieva il ricorso, suggerendo tuttavia che, caso per caso, la determinazione dell’assegno in situazioni come quella in esame, doveva essere attribuito non a titolo assistenziale, ma a titolo compensativo per la perdita di chances subita dalla moglie, proprio per permettere al marito di raggiungere i traguardi professionali e ciò indipendentemente dal fatto di avere o meno ricostituito una nuova famiglia.

La Cassazione peraltro suggeriva la possibilità di determinare una erogazione non a vita, ma per un tempo limitato, ovvero la capitalizzazione di una rendita, ipotesi possibile solo su accordo delle parti.

Quindi in sostanza la Corte Suprema affermava il seguente principio di diritto: l’instaurazione da parte dell’ex coniuge di una stabile convivenza di fatto, giudizialmente accertata, incide sul diritto al riconoscimento dell’assegno di divorzio, sulla sua revisione, nonché sulla quantificazione e sull’ammontare, in virtù del progetto di vita intrapreso con il terzo e dei reciproci doveri di assistenza morale e materiale che ne derivano, ma non determina, necessariamente, la perdita automatica ed integrale del diritto all’assegno.

Qualora sia giudizialmente accertata l’instaurazione di una stabile convivenza di fatto del coniuge richiedente, e questi sia privo di mezzi adeguati o impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, può mantenersi il diritto al riconoscimento dell’assegno divorzile a carico dell’ex coniuge soltanto in funzione compensativa.

A tal fine il richiedente dovrà fornire la prova del contributo offerto alla comunione familiare, dell’eventuale rinuncia concordata alle occasioni lavorative e di crescita professionale in costanza di matrimonio, dell’apporto alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell’ex coniuge.

L’assegno divorzile, anche temporaneo su accordo delle parti, non è ancorato al tenore di vita durante il rapporto matrimoniale, né alla nuova condizione di vita dell’ex coniuge, ma deve essere quantificato considerando i mezzi attuali del richiedente e l’apporto dato al menage familiare in funzione comunque della durata del matrimonio.

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