Cedere i beni alla moglie per sottrarli al fisco non è reato

Stampa

Di particolare interesse è la sentenza n° 6926 depositata il 21 febbraio 2020 dalla Corte di Cassazione penale che annullava la condanna di un imprenditore il quale, dopo aver subito la notifica della cartella di pagamento, cedeva le quote della sua società al coniuge, impedendo quindi all’amministrazione fiscale di poter procedere all’esecuzione forzata.

 

La questione prende le mosse da una sentenza del Tribunale e poi della Corte d’Appello di Brescia la quale condannava il titolare di una rilevante azienda, a due anni e sei mesi di reclusione per il reato di sottrazione fraudolenta a fronte del mancato pagamento di imposte, punito dall’art. 11 del Decreto Legislativo n° 74 del 2000.

Ciò in quanto, dopo aver ricevuto una serie di accertamenti fiscali ed in prossimità dell’esecuzione, cedeva le quote di partecipazione della propria società alla moglie ed al figlio.

Tali trasferimenti risultavano realmente effettuati così come pure erano state versate le somme di denaro da parte degli acquirenti in favore del venditore, sicché sotto l’aspetto formale, il negozio giuridico appariva conforme a legge.

Tuttavia il Tribunale e la Corte d’Appello penale ritenevano che gli atti dispositivi fossero manifestamente fraudolenti, trattandosi di trasferimenti puramente formali, operati in ambito familiare, solo allo scopo di paralizzare la riscossione del debito tributario.

Il versamento del corrispettivo sarebbe dunque servito solo a consolidare la veste formale dell’atto.

In sostanza il trasferimento avrebbe avuto quale unica ragione quella di pregiudicare l’esecuzione forzata nei confronti dell’imputato.

L’art. 11 del D.Lgs. 74/2000 e l’art. 388 c.p.

Per comprendere esattamente la problematica, che peraltro coinvolge molti soggetti, è necessario partire dall’esame della norma sulla quale era basata la condanna.

Il decreto legislativo n° 74/2000 prevede all’art. 11 come venga punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di oneri fiscali per un valore superiore ad € 50.000,00, alieni simulatamente o compia atti fraudolenti sui propri o su altri beni, idonei a rendere in tutto o in parte ineseguibile la procedura di riscossione coattiva.

La pena viene aumentata da uno a sei anni se l’ammontare delle imposte sia superiore ad € 200.000,00.

Va ricordato sotto questo profilo che in modo similare l’art. 388 del Codice Penale punisce la mancata esecuzione dolosa del provvedimento del giudice ed all’art. 388 ter la mancata esecuzione dolosa delle sanzioni pecuniarie.

Alle contestazioni dell’imprenditore il quale rilevava di essere comunque proprietario, pur dopo la vendita, di un ingente patrimonio, il Tribunale e la Corte d’Appello eccepivano in ogni caso, come non avesse rilevanza il patrimonio residuo dell’imputato di ben € 5.500.000,00 in quanto questo appariva comunque inferiore all’imposta oggetto dell’accertamento pari a circa € 30.000.000,00 e dunque entrambe le decisioni consideravano i trasferimenti di proprietà come atti fraudolenti.

Condotta fraudolenta

La difesa dell’imputato avanti la Corte di Cassazione era basata sul fatto che i giudici, i quali avevano emesso la condanna avevano ritenuto sussistente il reato soltanto in base alla mera esistenza degli atti di disposizione.

La Corte territoriale avrebbe omesso la motivazione circa la sussistenza della condotta fraudolenta, il dolo specifico, il concorso degli acquirenti ed la circostanza oggettiva che il prezzo di mercato effettivamente era stato corrisposto, fatto che peraltro non era neanche stato contestato all’Agenzia delle Entrate.

La Corte di Cassazione riprendeva l’orientamento di una precedente sentenza (la numero 29636 del 02/03/2018) laddove in tema di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, gli atti dispositivi compiuti dall’obbligato, oggettivamente idonei ad eludere l’esecuzione esattoriale, hanno natura fraudolenta ai sensi dell’art. 11 del D.lgs. 10/03/2000 n° 74, soltanto allorquando, pur determinando un trasferimento effettivo del bene, siano connotati da elementi di inganno e di artifizio, cioè da uno stratagemma tendente a sottrarre i beni alla garanzia patrimoniale ed all’esecuzione del fisco.

Per la concretizzazione del reato è sufficiente che l’azione sia idonea a rendere inefficace in tutto o in parte, l’esecuzione esattoriale trattandosi di un delitto cosiddetto di pericolo.

Tuttavia la norma distingue chiaramente due diverse condotte, l’alienazione simulata e gli atti fraudolenti.

Simulazione ed atti fraudolenti

L’alienazione è simulata quando è finalizzata a creare una situazione giuridica apparente diversa da quella reale.

Cioè quando il programma contrattuale non corrisponde deliberatamente, in tutto (simulazione assoluta), o in parte (simulazione relativa), all’effettiva volontà dei contraenti.

Se invece il trasferimento dei beni è effettivo, la condotta non può concretizzare l’atto simulato, ma deve essere valutata esclusivamente quale possibile atto fraudolento.

Secondo la giurisprudenza gli atti fraudolenti sono tutti quei comportamenti che, quando anche formalmente leciti, siano tuttavia connotati in elementi di inganno o di artifizio, dovendosi cioè ravvisare l’esistenza di un stratagemma tendente a sottrarre le garanzie patrimoniali all’esecuzione.

Si badi bene tuttavia che, ai fini della configurabilità del reato, non è sufficiente la semplice idoneità dell’atto ad ostacolare l’azione di recupero del bene da parte del’erario, essendo invece necessario il compimento di atti che, nell’essere diretti a questo fine, si caratterizzino appunto per la loro natura simulatoria o fraudolenta, (vedasi anche Cass. sezione unite 12213/17).

In sostanza non può farsi coincidere il requisito della natura fraudolenta degli atti con la loro semplice idoneità alla riduzione delle garanzie del credito.

In quest’ottica può essere ritenuto penalmente rilevante solo un atto di disposizione del patrimonio che si caratterizzi per le modalità tipizzate dalla norma, non potendosi in definitiva far coincidere la natura simulata dell’alienazione o il carattere fraudolento degli atti, esclusivamente con il compimento della cessione, finalizzata a paralizzare la legittima aspettativa dell’erario.

Quindi in conclusione nel caso in esame non risulta adeguatamente motivata la sussistenza della natura fraudolenta delle operazioni compiute, natura che non può essere ritenuta implicita nella idoneità degli atti a mettere in discussione la possibilità di recupero del credito da parte del Fisco.

L’azione revocatoria

Per completezza al di là della decisione, va comunque ricordato che, sul piano civilistico, il creditore può sempre agire con l’azione revocatoria ex art 2901 e seg.ti c.c. dimostrando che l’acquirente fosse a conoscenza della situazione debitoria del cedente. Con la pronuncia del Tribunale il trasferimento viene considerato inefficace, aprendo la strada al pignoramento. La giurisprudenza ha sempre confermato che i familiari acquirenti si considerano di norma consci dello stato patrimoniale del parente venditore, salva la prova contraria.

Tuttavia il creditore decade dall’azione per intervenuta prescrizione, decorsi cinque anni, dalla stipula della compravendita.



Abbiamo aggiornato la nostra Privacy e Cookie Policy. Se vuoi saperne di più, o se vuoi modificare il tuo consenso clicca su "Maggiori informazioni". Cliccando su "Accetto" all'utilizzo dei cookie impiegati dal nostro sito. Maggiori informazioni