Quando la Cassazione mette il naso tra le lenzuola

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Poco tempo fa si recava presso il nostro studio un simpatico cameriere quasi sessantenne il quale, lamentando che la moglie dopo la menopausa rifiutava i…vari tipi di rapporti sessuali a lui graditi, intendeva richiedere al tribunale la separazione dei coniugi con addebito al partner, asseritamente non avendo questa adempiuto in modo adeguato ai doveri che il marito riteneva essere insiti nel contratto matrimoniale.
Apparentemente la legge non si dovrebbe occupare di questioni così personali come i rapporti fisici fra i coniugi; tuttavia così non è, almeno esaminando la copiosa giurisprudenza di merito e di legittimità sul punto.

Ovviamente le questioni si sono evolute nel corso degli anni e si è passati dalla situazione ante riforma del 1975 con corposi trattati di diritto sul “difetto di verginità” o sul “celamento della perdita della verginità” quale “obbligo sociale” e “bene di famiglia” (vedasi ex multis Nicolò – Stella Ritcher Giuffré Editore 1968), con sentenze dello stesso tenore che configurano la perdita della verginità prima del matrimonio quale ingiuria grave in danno dell’altro coniuge, ad altro genere di cause ai tempi attuali, (ex multis Cass. 636/2005 del 23/03/2005), nelle quali invece è la donna che conviene in giudizio il marito, il quale rifiuta di intrattenere rapporti sessuali o non appaia perfettamente idoneo allo scopo.

Come si è evoluta la giurisprudenza

Vale la pena di ricordare che fino alla riforma del 1975, la posizione della donna appariva di estrema subordinazione.
Per tutti gli anni ’50 i giudici riconoscono l’obbligo da parte della donna di concedersi sessualmente come “remedium concupiscentiae” a beneficio dell’altro coniuge, oppure nel fine supremo della continuità della famiglia.
Né va sottaciuto che a quei tempi, l’informazione sui metodi anticoncezionali era reato secondo l’art. 553 del Codice Penale in vigore fino al 1971 e che, per tutti gli anni ’50 le donne erano escluse dalle giurie popolari, dalla magistratura ed anche dalla carriera diplomatica, alle quali verranno ammesse solo nel 1963.
La donna adultera veniva punita più severamente dell’uomo a causa di quello che la legge indicava come “differenza fisiologica”, il sequestro di una donna sposata (vale a dire di proprietà del marito) era molto più grave del sequestro di una donna non sposata, la verginità veniva considerato un obbligo morale e la donna smetteva tale stato solo per trasformarsi in moglie e madre.
Fra le tante decisioni di particolare interesse per comprendere lo spirito e la mentalità di quel periodo (neanche tanto lontano), è la sentenza della Cassazione dell’11/07/1973 n° 2007 la quale si occupa di un caso, in cui la notte di nozze, il marito, constatata la pregressa deflorazione della moglie, (non ad opera sua), si recava in compagnia di costei presso il più vicino posto di Polizia ed esponendo l’accaduto al sottufficiale di servizio, veniva informato che il fatto non era penalmente perseguibile.
A questo punto conduceva la consorte nell’abitazione di una zia ove alla presenza di costei, di una cugina e del marito di quest’ultima riferiva quanto gli era capitato, provocando l’ammissione della moglie.
Iniziato il processo per separazione per colpa, le Corti precedenti respingevano la domanda di separazione per colpa della moglie così che il marito si rivolgeva alla Corte Suprema, rilevando che, la donna era riuscita a contrarre matrimonio mediante un inganno e cioè celando la perdita del proprio stato verginale.
Secondo il ricorrente i giudici di merito avrebbero errato nel non aver identificato in detto celamento un fatto ingiurioso in danno di colui che aveva ragione di confidare nell’integrità fisica e morale della giovane, alla quale stava per unirsi in matrimonio.
La Cassazione accoglieva il ricorso statuendo che la Corte Suprema in casi analoghi, aveva sempre affermato che il celamento del difetto di verginità da parte della sposa costituisce normalmente un’ingiuria grave nei confronti del marito.

Divorzio e libertà sessuale

Vogliamo tuttavia, attenendoci alla storia, ricordare che, in Italia un’inversione di tendenza vi era già stata dal Settembre 1919 al Natale 1920.
Ciò si era verificato con l’occupazione di Fiume da parte di D’Annunzio e dei suoi legionari.
Pochi sanno che, in tale occasione venne per la prima volta promulgata la legge che ammetteva il divorzio in Italia.
D’Annunzio occupando la città con un gruppo di circa di circa 2.600 ribelli dell’esercito formato dai legionari di Ronchi, proclamava l’annessione al Regno d’Italia attribuendo ogni potere alla Reggenza Italiana del Carnaro dotata di una Costituzione, la cosiddetta “Carta del Carnaro” che a partire dall’8/09/1920 introduceva delle innovazioni legislative particolarmente importanti.
Veniva confermata la sovranità collettiva di tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, razza, lingua, classe e religione, garantendo il lavoro a tutti, compensato con un minimo di salario statuito legislativamente, inserendo l’assistenza in caso di malattia o di disoccupazione, la pensione di vecchiaia, l’inviolabilità del domicilio, il risarcimento dei danni in caso di errore giudiziario o di abuso di potere.
Per ciò che qui ci interessa garantiva oltre la libertà di stampa e di ogni associazione, il suffragio universale maschile e femminile, soprattutto il riconoscimento del divorzio, la libertà sessuale per tutti, donne e uomini, ed il diritto di rapporti al di fuori del matrimonio, (riservato però a dire del poeta ai soli soggetti esteticamente avvenenti).
Al di là comunque di tale parentesi D’Annunziana (non va sottaciuto che il poeta aveva anche abolito le tasse, procacciando però il denaro mediante azioni di pirateria sulle navi che transitavano avanti a Fiume) e tornando alla giurisprudenza sul tema, va detto che l’importanza dei rapporti fisici nel sostentamento del rapporto di coniugio, non perdeva importanza neanche dopo la riforma del 1975, cambiando però nettamente il punto di vista dei giudici.

L’attuale orientamento

Superate dunque le antiche posizioni di dottrina e giurisprudenza secondo cui ciascun coniuge per effetto del matrimonio appariva titolare di un diritto sul corpo dell’altro, tuttavia la Corte Suprema, accentuando il principio della comunione materiale e spirituale fra i coniugi, non prescindeva dal diritto-dovere vicendevole della consumazione dei rapporti sessuali.
Secondo l’attuale indirizzo, si ritiene che il dovere di ciascun coniuge di intrattenere una normale attività sessuale con l’altro, costituisce espressione dell’obbligo di assistenza morale di cui all’art. 143 c.c., oltre che naturalmente conseguenza dell’obbligo di coabitazione, e sussistendo il dovere vicendevole di far fronte ai bisogni dell’altro, inclusi quelli di natura sessuale.
In linea teorica quindi il rifiuto di un coniuge di intrattenere rapporti sessuali con l’altro, sempre che tale rifiuto appaia privo di giustificazione, può essere valutato ai fini dell’eventuale addebito della separazione, a meno che, come in genere i tribunali ritengono, il rifiuto dei rapporti sessuali altro non sia che una conseguenza ulteriore dell’incompatibilità caratteriale e del fallimento dell’unione, imputabile a tutt’altri motivi, e non la causa della crisi del rapporto.
Quindi in sostanza, perché possa essere sanzionato il rifiuto dei rapporti sessuali, ciò non deve derivare da situazioni giustificative, né deve avere natura occasionale, situazioni nelle quali non sussiste alcuna colpa.
La giurisprudenza inoltre ha sempre chiarito come appaia ingiustificata la pretesa dei rapporti sessuali con estrema frequenza e ovviamente costituisce reato penale costringere l’altro coniuge a avere rapporti sessuali contro la propria volontà con violenza o minaccia, applicandosi in tal caso le norme in tema di violenza sessuale sotto il profilo penalistico, in quanto non va confuso il diritto alla congiunzione sessuale con l’imposizione o peggio la violenza fisica o morale.

Iperattività e pratiche sessuali: la valutazione dei giudici

Se si esamina la giurisprudenza di merito si ha l’occasione di constatare come i tribunali spesso si debbano occupare di fattispecie talvolta grottesche o comiche.
Comunque i giudici non entrano mai nel merito della scelta del tipo di rapporti sessuali, valendo il principio per cui qualunque cosa che viene fatta di comune accordo non interessa il magistrato.
Così il Tribunale di Prato con la sentenza del 21/11/2008 n° 1471 statuisce che non rileva lo stile di vita sessuale imposto da uno dei coniugi quando vi è il consenso dell’altro, ed appare irrilevante sotto il profilo giuridico, il seguire determinate pratiche sessuali quale lo scambio di coppia, l’amore in gruppo con partner occasionali, i giochi con più soggetti a carattere erotico e simili.
Ciò in quanto tali circostanze non sono da sole idonee a costituire causa di addebito per l’uno o per l’altro e neanche la frequenza e le modalità delle pratiche seguite
E’ viceversa interesse del tribunale ai fini dell’addebito valutare il comportamento tenuto da un coniuge nei confronti dell’altro.
Nel caso in esame il tribunale addebitava la separazione al marito, irriguardoso nei confronti della moglie, avendola sottoposta a continue violenze psicologiche, umiliata davanti ai colleghi di lavoro e dimostrando assoluta noncuranza per i problemi di salute del coniuge.
Ciò soprattutto allorché la moglie aveva manifestato l’intenzione di cessare le pratiche di scambismo già utilizzate.

Troppa devozione religiosa

Altrettanto singolare è il caso sottoposto ad altro tribunale di una coppia sposata in cui la donna, casalinga quarantenne, decideva di intraprendere un cammino religioso, che la portava a fare voto di castità. Il marito, un operaio sessantenne, se inizialmente accettava tale scelta, in seguito non riteneva più di tollerare la situazione e si rivolgeva al tribunale chiedendo la separazione con addebito.
Altrettanto avveniva nel caso portato all’esame del Tribunale di Verbania nel 2011 nel quale ad un commerciante veniva addebitata la separazione a causa di un comportamento religioso eccessivo portante quasi al fanatismo, con risvolti anche sul piano fisico personale.
Cercando nelle pieghe delle sentenze, si scoprono situazioni in cui è la donna che richiede l’addebito della separazione per un “irragionevole frequenza di rapporti sessuali” e viceversa sentenze che addebitano alla donna “un eccesso di pretese sotto il profilo fisico”.

Non faccio sesso per punirti

La Cassazione, a proposito invece del rifiuto del marito di dar corso ad una normale attività sessuale, è intervenuta con una nota sentenza del 2005 (la n° 636) in una singolarissima fattispecie nella quale costui da ben sette anni, rifiutava di intrattenere rapporti affettivi e sessuali con il coniuge, per rivalsa nei confronti della moglie, la quale aveva assunto le difese del fratello, in una diatriba in cui il marito era stato coinvolto in violenti contrasti con il cognato, in tema di rapporti economici.
Per punire la moglie di tale indebito appoggio al fratello, il marito aveva deciso di interrompere ogni rapporto fisico. La Cassazione tuttavia precisava che il rifiuto protrattosi per così lungo tempo, di natura volontaria e non derivante da un’impossibilità oggettiva, costituisce una gravissima offesa alla dignità ed alla personalità della partner e provoca un senso di frustrazione e disagio, causa anche di irreversibili danni sul piano dell’equilibrio psicofisico.

I rapporti sessuali con la moglie separata

A parte le varie e numerosissime fattispecie, ricordiamo sotto altro profilo che, i rapporti sessuali vengono presi in esame dalla legislazione e dalla giurisprudenza anche per ciò che riguarda la pronuncia divorzile.
Da un lato in quanto la legge n. 898/70 (integrata dalla legge n° 436/78, dalla legge n° 80/05 ed infine dalla legge n° 54/06), espressamente dichiara all’art. 3 fra i possibili presupposti della richiesta di cessazione degli effetti civili del matrimonio, che sia stata pronunciata con sentenza passata in giudicato la separazione giudiziale fra i coniugi, (ovvero sia stata omologata la separazione consensuale) e che lo stato di separazione si sia protratto ininterrottamente da almeno tre anni a far tempo dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al Presidente del Tribunale.
Capita spesso che, successivamente alla separazione continuino i coniugi ad incontrarsi e ad intrattenere rapporti sessuali, l’altro coniuge convenuto poi per il divorzio eccepisca tale situazione, sostenendo che il rapporto di separazione è stato interrotto per i rapporti fisici e quindi, non solo manchi lo stato di separazione “protratto ininterrottamente”, ma si sia in presenza di una riconciliazione.
Tuttavia la giurisprudenza della Cassazione sotto tale profilo ha precisato ormai da molti anni che, affinché possa considerarsi sussistere la riconciliazione fra due coniugi separati, non è sufficiente il ripristino di frequenti rapporti sessuali, ma occorre anche la ricostituzione di un vero e proprio nucleo familiare.
Ciò anche in un caso in cui, a seguito dei rapporti sessuali, era nato un figlio in costanza di separazione, non senza ricostituzione della famiglia.

Di nuovo insieme, ma non solo a letto

Infatti la Cassazione ritiene che, per interrompere il decorso dei termini per il divorzio, la comunione materiale e spirituale (in tal senso molto recentemente anche Trib. Roma sez. I civile n° 23837 del 2011) debba consistere in atti evidenti di riconciliazione fra i coniugi, visibili erga omnes.
Praticamente i coniugi devono rimanere a vivere per un sufficiente lungo lasso di tempo sotto lo stesso tempo, comportandosi da marito e moglie, mostrandosi a tutti come tali, passando le vacanze insieme, dormendo sotto lo stesso tetto e consumando i pasti in comune.
La questione non è di poco conto, in quanto, a parte il divieto del divorzio, la riconciliazione fra i coniugi dopo la separazione, è prevista espressamente dall’art. 157 c.c., che, stabiliva come “I coniugi possono di comune accordo far cessare gli effetti della sentenza di separazione… con un comportamento non equivoco che sia compatibile con lo stato di separazione”.
Quindi ove un coniuge riesca a dimostrare che è ripresa la convivenza, egli non sarà più tenuto, né agli adempimenti né agli obblighi della separazione, quale il pagamento dell’assegno di mantenimento o il rispetto delle altre statuizioni relative alla casa coniugale ed al collocamento dei figli.

Sposati, ma senza sesso

Per ciò che riguarda ancora la legge divorzile, va detto che il comma f dell’art. 3 della legge 898/720 e succ. modifiche, prescrive che lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio, possa anche essere domandato allorché il matrimonio non sia stato consumato.
In effetti tale previsione di evidente parallelismo con l’analoga normativa del diritto canonico appare ad una visione civilistica del matrimonio francamente fuori luogo.
Infatti mentre per una concezione cattolica che vede nell’unione tra coniugi il realizzarsi il fine della procreazione, è senza dubbio rilevantissimo il problema dell’unione sessuale, non altrettanto sembra rilevante il problema in sé per sé dal punto di vista del diritto civile e familiare, allorché il matrimonio debba considerarsi un contratto, sia pure un contratto particolarissimo, con una serie di conseguenze giuridiche sul piano patrimoniale, successorio e sotto numerosi altri profili, ma pur sempre un contratto, con sue proprie caratteristiche di originalità e di autonomia, ma comunque con riflessi prettamente giuridici e con ben pochi punti di contatto con la concezione canonica.

Quali tipi di rapporti sessuali “consumano” il matrimonio

D’altra parte l’aver ricompreso tale presupposto fra quelli legittimanti del divorzio, crea tutta una serie di problemi, in fondo ben poco calzanti con la concezione moderna del matrimonio civile.
Sotto tale luce appaiono quanto meno grottesche tutte le discettazioni della dottrina circa il contenuto del concetto di consolazione del matrimonio.
Quale particolari tipi di congiunzione carnale appaiono “consumare” il matrimonio e quali no, se il rapporto vaginale sia equiparabile ad altri tipi di rapporto, se necessita l’orgasmo o l’eiaculazione, se vadano conteggiato i rapporti prima del matrimonio e così via.
Non sfuggirà sotto una certa luce l’aspetto quasi comico delle questioni se non fosse evidentemente penoso per il giudice o per gli interessati procedere ad accertamenti assolutamente personali ed evidentemente sgradevoli.
Tuttavia anche sotto altro profilo appare criticabile la scelta del legislatore.
Infatti l’accettazione della mancata consumazione del matrimonio quale causa di divorzio, sembra anche contrastare con i principi di base della concezione giuridica attuale del matrimonio, la cui essenza, a parte le conseguenze personali e patrimoniali, ormai concordemente in dottrina e giurisprudenza viene fatta consistere proprio nella “comunione materiale e spirituale” fra coniugi.
Ora non vi è alcun dubbio che tale comunione comunque possa sussistere anche in assenza di rapporti sessuali nell’accordo fra le parti.
È quindi evidente la contraddizione per cui, da un lato il matrimonio sussiste indipendentemente dall’esistenza di rapporti sessuali concordati fra i coniugi e, tuttavia dall’altro la mancanza di questi può essere invocata come causa di divorzio.
Va detto sul piano pratico che in genere non è mai ammessa la semplice dichiarazione di entrambi gli interessati circa l’inconsumazione, ma si richiedono prove precise, peraltro, salvo casi particolari, evidenti difetti fisici o delicatezza della donna, prove di ben difficile effettuazione.
Recentemente tuttavia vi è stata un’apertura della giurisprudenza tant’è che la stessa Cassazione (ex multis n° 2815/06) ha ritenuto che le testimonianze “de relato ex parte actoris” possono concorrere a determinare il convincimento del giudice, ove vengano parallelamente valutate le relazioni e le circostanze obbiettive e soggettive od altre risultanze probatorie che ne suffraghino il contenuto, specie quando la testimonianza attenga a comportamenti intimi e riservati delle parti, insuscettibili di percezione diretta dai testimoni o da indagine tecnica.
In base a tale principio la Cassazione confermava la sentenza impugnata che, in materia di divorzio aveva valorizzato ai fini della prova della dedotta inconsumazione del matrimonio, in ipotesi di comprovata non verginità della donna prima delle nozze, le testimonianze de relato rese da amici del marito il quale aveva confidato loro il rifiuto della moglie di intrattenere rapporti sessuali.

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