La questione dei figli tra collocamento, affidamento e potestà: cosa è cambiato

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Si riteneva, con l’entrata in vigore della legge n. 54/06, che fosse stato posto definitivamente termine alle ingiustizie subite dai padri, di fatto estromessi dalla gestione della prole. Molti tuttora sono convinti che i periodi di permanenza del bambino presso ciascun genitore con la disciplina attuale siano paritari.

In realtà è esattamente l’opposto e, se vogliamo dirla tutta, su un piano reale non vi sono stati cambiamenti sostanziali rispetto ai precedenti orientamenti giurisprudenziali che privilegiavano la madre quale custode quale esclusiva dei figli.
Per comprendere esattamente la questione, va ricordato che precedentemente alla legge n. 54/06, al concetto di “affidamento” veniva affiancato e concatenato quello di “potestà”.
Quindi chi otteneva l’affidamento dei figli otteneva anche la potestà e più chiaramente, considerando che per “affidamento” doveva intendersi la custodia della prole e per “potestà” l’assunzione delle decisioni relative, significava che il coniuge che otteneva l’affidamento poteva assumere tutte le decisioni relative ai figli affidati.

LE MODIFICHE INTRODOTTE DALLA LEGGE DEL 14/02/2006 N. 54
La nuova normativa così recita: “Anche in caso di separazione personale tra i genitori il figlio minore ha diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione ed istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale. Per realizzare le finalità indicate al primo comma il giudice che pronuncia la separazione personale dei coniugi, adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati ad entrambi i genitori, oppure stabilisce a quali di essi i figli siano affidati, determina tempi e modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando la misura ed il modo con cui ciascuno di essi debba contribuire al mantenimento,alla cura e all’istruzione dei figli…”
Dunque secondo la nuova disciplina l’affidamento deve essere sempre pronunciato condiviso.
Tuttavia si tratta più che altro di una pronunzia di principio, laddove di fatto mantenendo il collocamento presso la madre e vivendo il figlio con uno solo dei genitori così come avviene di norma, la custodia dell’altro appare meramente simbolica e morale.

LE STATUIZIONI DEL TRIBUNALE: AFFIDAMENTO E COLLOCAMENTO
Attualmente dunque il giudice che pronuncia la separazione deve stabilire tre punti relativi ai figli.
Innanzi tutto “l’affidamento” che come si è visto ha valore soprattutto etico, affidamento che di norma deve essere attribuito in favore di entrambi i genitori (condiviso). Ciò salvo casi eccezionali nei quali si pronuncia l’affidamento esclusivo ad un solo genitore, allorché il magistrato ritenga che l’affidamento ad entrambi non corrisponda all’interesse dei figli, (pericolosità, immoralità, non presenza sul territorio e simili).
Il secondo punto che il giudice deve stabilire è quello del cosiddetto “collocamento” e cioè deve indicare la residenza dei figli, stabilendo con quale genitore costoro rimarranno a vivere.
Il collocamento in sostanza è il punto più importante del provvedimento relativo ai figli, perché con il collocamento di fatto si stabilisce con quale dei genitori i figli risideranno e da tale collocamento scaturiranno conseguenze estremamente importanti, come diremo.
Contrariamente alle aspettative emerse subito dopo la promulgazione della legge e contrariamente alle credenze di molti (che i figli passino eguali periodi con l’uno e con l’altro genitore), la pronunzia del collocamento (o della residenza privilegiata o la determinazione del genitore con cui vanno a vivere i figli - termini utilizzati in un modo o nell’altro a seconda delle preferenze dei vari tribunali italiani), nulla ha mutato riguardo al precedente affidamento esclusivo, talché anche oggi, nel 95% dei casi, i figli vengono collocati presso la madre.
La questione del collocamento è molto importante, in quanto tutti i benefici previsti dalla normativa vigente (determinazione di un assegno di mantenimento per i figli, assegnazione della casa coniugale e connessi) vengono rapportati e costituiscono una conseguenza proprio del “collocamento”, sicché il coniuge che ottenga il collocamento otterrà anche l’assegnazione della casa e cioè il diritto di abitarla stabilmente, non infrequentemente a vita, soprattutto laddove il provvedimento venga pronunziato in tenera età dei figli.
Quindi il coniuge collocatario, oltre ad ottenere il versamento mensile dell’assegno di mantenimento in favore dei minori o dei figli maggiorenni non ancora autonomi, otterrà l’uso gratuito della casa, anche se di proprietà esclusiva dell’altro, e anche se sussiste un mutuo in corso di pagamento a carico del coniuge estromesso.

LA QUESTIONE DELLA POTESTA’
Infine per quanto riguarda la “potestà”, e cioè la possibilità di assumere decisione relative ai figli, con la nuova normativa questa viene esercitata da entrambi i genitori ma di fatto da quello con cui i figli vivono, tant’è che i tribunali sono soliti statuire che le decisioni di ordinaria amministrazione spettino appunto al coniuge con cui vivono in quel momento i figli (le decisioni giornaliere, la scelta delle persone da frequentare, lo sport, i divertimenti, ecc.).
Viceversa per quanto riguarda le decisioni straordinarie e di maggiore interesse (per esempio relative all’istruzione, all’educazione, alla salute, alla religione), queste devono essere teoricamente assunte di comune accordo.
Teoricamente, perché ove il coniuge con cui vivono i figli, cioè la madre, assuma una decisione, il padre per contrastarla dovrà sostenere oneri di migliaia di euro per aprire un processo ad hoc, ipotesi che si verifica molto difficilmente.
In ultima analisi, mutatis verbis, la situazione è rimasta sostanzialmente la stessa, tant’è che se si esaminano le statistiche del regime normativo precedente, dove i padri erano esclusi quasi totalmente dall’affidamento, ci si rende conto che il regime attuale in cui l’affidamento è condiviso sostanzialmente costituisce un guscio vuoto e il collocamento dei figli, e cioè la scelta del genitore con cui vanno a vivere, con tutte le conseguenze dette, continua ad essere attribuito, così come era in precedenza, alla madre.

RESPONSABILITA’ NEL FALLIMENTO DELL’UNIONE
Si noti che il collocamento viene attribuito alla donna anche al di là dell’eventuale responsabilità nel fallimento dell’unione coniugale, dovendosi preferire la tutela dei figli rispetto alla tutela delle ragioni del padre, secondo una Cassazione ormai ampiamente consolidata.
Infatti la giurisprudenza ha chiarito che, seppure il fallimento dell’unione sia da addebitare alla moglie, egualmente vanno tutelati i figli, in quanto costoro necessitano in modo prevalente della figura materna.
La circostanza per cui il collocamento (in precedenza l’affidamento) dei figli comporta per il coniuge “colpevole” della separazione il diritto di abitare la casa coniugale estromettendone l’altro nonché il diritto a percepire l’assegno di mantenimento per la prole, se contrasta con ragioni morali ed etiche (appare ingiusto estromettere da un’abitazione il coniuge che non abbia alcuna colpa del fallimento dell’unione), tuttavia risponde all’interesse dei figli, in quanto secondo studi psicologici univoci nel risultato, un bambino ha necessità prioritaria della figura materna.
Dunque legittimamente il coniuge incolpevole subisce tutte le conseguenze di un matrimonio fallito non per colpa sua, rimanendo obbligato ad oneri economici, spesso non irrilevanti, e alla perdita dell’abitazione per la quale magari sta continuando a pagare un mutuo, soltanto per la preferenza accordata alla donna nella tutela della prole.
La Cassazione in una celebre sentenza ha espressamente dichiarato che dovendo scegliere fra i due mali, si deve optare per il male minore, sacrificando il genitore incolpevole rispetto all’interesse ed alle necessità dei figli nel vivere con la madre.

I PROVVEDIMENTI ASSUNTI NELLA PRATICA GIUDIZIARIA
Conclusivamente quindi il magistrato e cioè il Presidente del Tribunale e poi il Giudice Istruttore ed infine il Collegio, ovvero nel caso di genitori non coniugati il Tribunale dei Minorenni, dovrà assumere le seguenti decisioni dopo aver autorizzato i genitori a vivere separati:

a) Attribuirà l’affidamento, di norma condiviso salvo casi particolari;
b) Stabilirà la residenza dei figli (il cosiddetto collocamento) in favore dell’uno o all’altro coniuge, determinando il periodo nel quale il genitore non collocatario avrà con sé i figli;
c) Assegnerà l’ex casa coniugale al coniuge collocatario, attribuendogli il diritto di abitarla gratuitamente, sostenendo soltanto gli oneri condominiali;
d) Determinerà l’obbligo di partecipare al mantenimento dei figli a carico del coniuge non collocatario.
Secondo alcuni le modifiche nella legge 54/06 appaiono più che altro di facciata talché nell’attuazione pratica, come si è visto, è sufficiente sostituire la parola “residenza” o “collocamento” a quella che, nel regime pregresso, era “affidamento” per giungere alle medesime conclusioni.

ABROGAZIONE DI NORME INCOMPATIBILI
Rileviamo, sotto tale profilo, che con i nuovi istituti, secondo l’orientamento prevalente, devono intendersi abrogate in maniera definitiva le normative introdotte dalla disciplina divorzile di cui alla legge n. 74/87, circa l’affidamento “congiunto” o “alternato”, retaggi storici che non hanno trovato alcun successo, a parte la confusione dei termini con il regime attuale.
Ricordiamo per chiarezza che la precedente disciplina divorzile prevedeva per affidamento congiunto (da non confondersi con l’attuale affidamento condiviso) la possibilità per entrambi i coniugi di sostituirsi a periodi prefissati nell’occupazione della casa coniugale.
Quindi il figlio restava nell’abitazione e in questa si sostituiva uno o l’altro genitore a periodi fissi.
Diversamente per affidamento alternato si intendeva la possibilità per ciascun coniuge di essere affidatario della prole, solo in un determinato periodo dell’anno, passando il bambino da una casa all’altra.
Tali istituti, dopo gli entusiasmi iniziali si sono rilevati assolutamente fallimentari, per il senso di insicurezza e instabilità che creava nella mente dei figli.

Tutte le pronunce assunte a suo tempo, infatti, statisticamente sono state oggetto di revisione su istanza di uno o dell’altro coniuge, proprio per essersi rivelate inattuabili e contrarie all’interesse della prole.

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